Richard A. Friedman è professore di psichiatria clinica e direttore della clinica di psicofarmacologia del Weill Cornell medical college di New York. Un suo articolo pubblicato sul numero 1553 dell’ “Internazionale” dell’8 Marzo, a pagina 100 recita “La psicoterapia non può durare per sempre“, un tema delicato e spesso trascurato nel campo della psicoterapia: la durata del trattamento.
Friedman apre la discussione mettendo in luce un aspetto cruciale della terapia psicologica, ovvero il rischio che diventi un impegno a lungo termine senza una reale necessità clinica.
Attraverso esempi tangibili e riflessioni professionali, l’autore invita sia terapeuti che pazienti a considerare la psicoterapia non come una soluzione permanente ma come un ponte verso l’autosufficienza emotiva e psicologica.
L’articolo si distingue per la sua capacità di navigare tra le sfumature di un argomento complesso, evidenziando i benefici della terapia a breve termine e interrogandosi sulla validità delle sedute prolungate in assenza di sintomi acuti.
L’approccio critico di Friedman, supportato da studi e osservazioni cliniche, contribuisce a una narrazione equilibrata che riconosce l’importanza della terapia, pur sottolineando la necessità di un uso consapevole e mirato.Friedman riesce a trasmettere il messaggio chiave con una prosa accessibile e riflessiva, incoraggiando una riflessione profonda sul vero scopo della psicoterapia.
La sua proposta di “pausa terapeutica” come mezzo per valutare il progresso individuale e la dipendenza dalla terapia offre una prospettiva innovativa e potenzialmente liberatoria per molti.
L’articolo di Friedman colpisce per la sua capacità di affrontare un dibattito cruciale nel campo della salute mentale con un equilibrio tra comprensione empatica e rigore scientifico.
Sollevando questioni su quanto spesso la terapia possa trasformarsi da strumento di guarigione a comodo abitudine, l’autore invita a una maggiore autoconsapevolezza tra i pazienti e un senso di responsabilità tra i professionisti della salute mentale.
La sua voce si aggiunge a un dialogo necessario sulla natura della guarigione psicologica, stimolando sia professionisti che pazienti a riflettere sull’obiettivo finale della terapia: l’autonomia piuttosto che la dipendenza.
Questo articolo non solo illumina aspetti spesso trascurati del processo terapeutico ma incoraggia anche un dialogo aperto su come possiamo collettivamente perseguire il benessere psicologico in modi più sostenibili e consapevoli.
Il pensiero di Friedman si inserisce in un dibattito più ampio sulla necessità di personalizzare i trattamenti di salute mentale, riconoscendo che la “taglia unica” non si adatta a tutti. La sua critica all’uso prolungato della terapia in assenza di sintomi acuti riflette una chiamata all’azione per i professionisti della salute mentale: valutare periodicamente l’efficacia della terapia e considerare pause terapeutiche o la conclusione della terapia quando appropriato.
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