Parthenope: L’amore è provare a sopravvivere.

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La bellezza viscerale di Parthenope, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, non si limita alla superficie scintillante delle immagini che ci colpiscono. Come sempre, Sorrentino ci offre una visione che sprofonda nelle cavità più oscure dell’animo umano, facendoci immergere in una realtà che è tanto affascinante quanto inquietante. Questo film non è un viaggio verso la meraviglia estetica: è una discesa nel dolore, nella solitudine e nelle illusioni che costellano la nostra esistenza.

La protagonista incarna le contraddizioni più profonde della città di Napoli. La sua storia è un affresco crudele e meraviglioso della lotta tra il desiderio di rinascita e l’attrazione verso l’abisso. Ogni fotogramma è un colpo al cuore, un invito a guardare negli occhi la bellezza che c’è dentro l’abisso.

Il film parla di corpi, di desiderio, di potere, di amore – ma non in modo romantico o consolatorio. Sorrentino ci mette di fronte a una realtà nuda e cruda, una realtà che non ammette mezze misure: siamo di fronte a un dramma umano in cui ogni singola emozione è amplificata al massimo, come in un sogno dai contorni deformi.

L’Amore Salva? Alla domanda se l’amore salvi, il film risponde con una realtà cruda: l’amore non salva. Non può. L’amore è un fuoco che brucia, che distrugge e che non offre che un’illusoria consolazione. In Parthenope, l’amore è qualcosa che ci mette a nudo, che ci espone alla nostra vulnerabilità. È attraverso questo straziante processo che i personaggi si trovano faccia a faccia con le loro paure più profonde, ma non riescono mai a superarle. E se l’amore non salva, cosa ci resta? La risposta, forse, è che dobbiamo imparare a vivere con il nostro dolore, senza illusioni, ma con la consapevolezza di essere, come Napoli, eternamente alla ricerca di qualcosa che potrebbe non esistere mai.

Dal punto di vista psicologico, Parthenope è una riflessione potente sul tema della perenne ricerca di sé. La protagonista, una figura al contempo fragile e dirompente, vive in un costante conflitto tra il bisogno di riconoscimento e il timore di essere svuotata della propria identità. Non è solo un personaggio, è un simbolo, l’archetipo di una società che continua a inseguire ideali impossibili, come un amante che non smette mai di cercare l’altra metà, pur rimanendo costantemente sola.

Il film esplora il concetto di vuoto emotivo in modo disturbante, come una ferita che non si rimargina mai, ma piuttosto diventa sempre più profonda, più dolorosa. La protagonista si scontra con la morte, un tema ricorrente nella filmografia di Sorrentino, un abisso in cui ci si perde senza speranza di ritorno.

Uno degli aspetti più disturbanti è il modo in cui il potere e la seduzione si intrecciano con l’affetto e il desiderio. La relazione tra i personaggi si sviluppa su una tela di inganni, di giochi psicologici che non sono mai esplicitamente dichiarati, ma che vibrano sotto la superficie. La protagonista, incapace di trovare una vera connessione con l’altro, finisce per mettere in scena una serie di performance emotive, come un’artista che non sa più dove finisce la propria verità e inizia la finzione.

Qui emerge un tema fondamentale: l’identità come costruzione. La protagonista è costantemente divisa tra il desiderio di essere amata per ciò che è e la necessità di essere qualcosa che gli altri possano desiderare. Questo gioco di specchi, in cui ogni riflesso non è altro che una versione deformata dell’originale, è il vero cuore del film. La psicologia del personaggio diventa una metafora della nostra società, dove l’individuo è costretto a recitare ruoli che non gli appartengono, in un eterno tentativo di trovare un riconoscimento che, in fondo, è sempre destinato a sfuggirgli.

Qual è il prezzo dell’amore? Sorrentino non ci dà soluzioni facili. Siamo disposti a pagarlo? A cosa siamo disposti a rinunciare per ottenere quel tanto ambito amore, quel potere, quella validazione che ci illudiamo ci completeranno? Sorrentino non ci permette di restare neutrali: ci spinge, senza pietà, a guardare dentro noi stessi e a chiederci quanto siamo disposti a sacrificare per sentirci vivi.

La psicologia che permea Partenophe è, in ultima analisi, una psicologia della disperazione. Non quella disperazione romantica che si nutre di lacrime e pianti, ma quella silenziosa e corrosiva che consuma la nostra speranza e ci fa sembrare di essere sempre inadeguati, mai abbastanza. Una disperazione che, forse, non troverà mai soluzione, ma che continuerà a definirci, a spingerci in avanti senza tregua. E in questa corsa senza fine, Sorrentino ci lascia, come sempre, con una domanda senza risposta: chi siamo davvero? E siamo disposti ad affrontarlo?

Nessuno esce vincente. Ogni personaggio è intrappolato in una spirale di desideri irrealizzati e illusioni spezzate. L’amore, che dovrebbe essere il filo rosso che salva e unisce, si rivela un inganno, un sentimento che non basta mai, che non riesce mai a colmare il vuoto interiore. Tutti i protagonisti, pur lottando per trovare un senso alla loro esistenza, finiscono per perdere nella battaglia con la vita. E così, il film diventa una riflessione disillusa sulla condizione umana: siamo sempre alla ricerca di qualcosa che non possiamo avere, e nel tentativo di ottenerlo, ci perdiamo.

La salvezza, forse, non arriva mai, e questa consapevolezza è ciò che rende il film tanto potente e, allo stesso tempo, angosciante. Sorrentino non ci offre una via d’uscita. Ci lascia con la consapevolezza che la vita è una lotta in cui, alla fine, tutti siamo perdenti, ma siamo anche destinati a continuare a cercare, a lottare, a sperare in un amore che non arriva mai completamente a salvarci.